Teatro

Maiuri torna a casa, con una mostra al Museo Archeologico di Napoli

Maiuri torna a casa, con una mostra al Museo Archeologico di Napoli

Il MANN riaccoglie Amedeo Maiuri: fino al 20 febbraio, l'omaggio al grande archeologo, attingendo all'ampio materiale del Fondo Maiuri.

La mostra è intitolata Amedeo Maiuri. Una vita per l’archeologia, ed è stata inaugurata nella splendida sala 34, il cui soffitto voltato riproduce i meravigliosi stucchi policromi del vestibolo della sezione maschile delle Terme Stabiane di Pompei, ed è la tappa napoletana dell’esposizione che ebbe il suo ‘battesimo’ a Pompei poco più di un anno fa, in occasione del Premio Internazionale Amedeo Maiuri. Curata da Umberto Pappalardo con i contributi di Rosaria Ciardiello, Laura Del Verme e Pio Manzo, la mostra si dipana essenzialmente in un viaggio di ricordi fatto di foto d’epoca ed oggetti.

Cuore dell’esposizione sono una minima parte dell’ampio materiale costituente il ‘Fondo Maiuri’ che Bianca Maiuri ha trasmesso all’Università ‘Suor Orsola Benincasa’ di Napoli nel 2001. Il Fondo rappresenta un vero e proprio ‘tesoro’, composto soprattutto dalla straordinaria produzione scientifica e pubblicistica di Maiuri.  La presentazione, caratterizzata dalla proiezione del filmato di Marco Flaminio in cui si sono potute ascoltare anche le parole tenere di chi ha conosciuto e lavorato con don Amedeo, è stata una vera e propria ‘festa’ in onore dell’archeologo di Veroli. Infatti, nell’affollata sala conferenze del museo, non c’era solo chi ha avuto modo di conoscere Maiuri, come Peppino Maggi, Vincenzino Sicignano o Giuseppe Lindinerro, che negli occhi conservano ancora la delicatezza di un giovanile ricordo, ma anche tante persone che, per il solo fatto di essersi avvicinate allo studio delle antiche città vesuviane, nutrono un debito morale nei suoi confronti.

In questa occasione è stata lanciata dal professore Pappalardo, e accolta dal direttore del MANN Paolo Giulierini, la proposta di lasciare definitiva traccia dell'importanza del ruolo di Maiuri, dedicandogli una sala del Museo. Una festa, dunque, Un momento di ricordo collettivo per omaggiare un maestro, non solo di scienza archeologica ma anche di divulgazione. E, infatti, è forse questa, più di ogni altro scavo o restauro, la grande lezione di don Amedeo: fare di Pompei e di Ercolano delle città ‘vive’ in cui tutti potessero accedere ad una conoscenza che non fosse solo scientifica ma ‘paradigmatica’ della stessa esistenza umana. I suoi racconti, tanti, sono storie di uomini antichi di carne e sangue, narrazioni fatte attingendo ai suoi densi taccuini o alle sue infinite ‘passeggiate’. E la mostra è proprio questo. E’ viaggio visivo, quasi tattile, di un mondo e di un modo di raccontare quell’antico che ormai non c’è più.

Alle pareti della sala tanti pannelli: sono foto accompagnate dai ricordi che lo stesso Maiuri annotò nei suoi resoconti, e che il visitatore può leggere come se stesse accompagnando l’archeologo nell’ennesima scoperta di un sito o di un reperto. Fotografie che narrano di una vita sempre sul campo, anche quando impegni burocratici avrebbero dovuto trattenere altrove l’archeologo divenuto funzionario. E così osserviamo, incorniciati, quadretti che racchiudono onorificenze, cittadinanze onorarie come quelle che gli conferirono Capri o Ercolano, celebri disegni assonometrici. Una livrea azzurra da Accademico d’Italia è lì esposta quasi a voler darci anche la ‘misura fisica’ di don Amedeo, che comunque non fu mai amante delle divise. Una serie di teche racchiudono, poi, veri e propri gioielli librari come ad esempio una bellissima riproduzione della Bibbia miniata di Borso d’Este, con antiporta in seta e dedica autografa di Giovanni Treccani; edizioni a tiratura limitata di Villa dei Misteri e un esemplare de’ La Casa del Menandro e il suo Tesoro di Argenteria pubblicata dalla Libreria dello Stato nel 1933. E, ancora, taccuini, medaglie o edizioni delle sue famose opere divulgative.

A dominare la sala, due sculture che fanno quasi da emblema alla piccola ma interessante esposizione: una copia in gesso del busto in bronzo esposto oggi nell’Esedra dei Pompeianisti presso l’Antiquarium degli Scavi e la statua del Diomede da Cuma. Proprio la scoperta e la ricomposizione di questa statua ci offre forse la cifra di chi fosse l’ultimo gigante della nostra archeologia. Eccolo, quindi, il Maiuri che racconta: “La scoperta di quel pozzo di luce mi dette anche la più bella statua fin allora apparsa negli scavi cumani: il Diomede di Cuma... Quando lo adagiammo sul suolo della Grotta con il volto fermo e sereno pronto a difendere la sua preda contro l’insidia di Ulisse, ci parve, in mezzo a quelle tenebre, che avessimo ritrovato anche noi, come Enea sulle vie dell’Ade, le ombre degli eroi. Intera fortunatamente la scultura nella testa e nel tronco, mancava solo una delle gambe, la destra, a reggere e comporre l’atletica e armoniosa forma del corpo; e quando al museo, disteso il Diomede sulla tavola anatomica dell’officina del restauro, mi apparve anche più crudele quella mutilazione, volli, prima di ricorrere alla necessaria protesi chirurgica, tentare tutte le possibili vie di ricupero. Fallite le ricerche nella grotta e nel terreno soprastante, riandavo col pensiero ai molti frammenti intravisti qua e là nelle vigne e nelle masserie di Cuma. E una domenica d’una ventosa giornata di marzo, spinto da non so quale barlume di ricordo, andai a Cuma e, nella deserta masseria di Poerio, mossi defilato al porcile dove, murato nello stipite, biancheggiava un bel pezzo affusolato di marmo. Chiamato il custode ci mettemmo silenziosamente all’opera come due ladri che volessero involare il porco di Calandrino e, tra proteste e grugniti screanzati di una scrofa cinghialuta e di un corteo di maialetti rosati, riuscimmo a smurare il marmo. Era proprio una bella e morbida gamba di statua; avvoltola alla meglio in un giornale, me la portai gelosamente a Napoli e andai a collocarla senza perder tempo sotto la coscia del Diomede: era la gamba dell’eroe; la protesi era scongiurata; Diomede poteva, senza grucce, recare trionfalmente il Palladio di Troia alla materna città d’Argo e alle molte altre città da lui fondate in Italia”. E proprio a rileggere queste poche righe si avverte tutto il senso di un uomo che si era speso per una sola, unica passione, che fu passione di tutta una vita: una "vita d’archeologo"!